Trattamento cognitivo della schizofrenia
GIOVANNA REZZONI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 16 novembre 2019.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Pioniere della diagnosi e del trattamento cognitivo
delle psicosi, il nostro presidente è stato tra i primi a impiegare per gli
psicotici l’articolato strumento del test-training cognitivo assistito
da computer (CACR), ideato dai coniugi Gianutsos per la riabilitazione
neuropsicologica e introdotto in Italia da Luciano Lugeschi. Conseguentemente, vi
è sempre stata un’attenzione privilegiata dei membri della Società Nazionale di
Neuroscienze BM&L-Italia per lo studio delle alterazioni della cognizione in
rapporto all’endofenotipo schizofrenico, e per l’impegno volto a migliorare un
intervento che ancora non è entrato, in Italia, nella routine clinica.
Il sintomo dei deficit cognitivi associati alle
psicosi ha patito per molti decenni gli effetti di una rigida separazione fra
campi definiti dal profilo di due figure professionali, il neuropsicologo e lo
psichiatra: il primo preparato tradizionalmente per intervenire sulle
conseguenze di danni focali cerebrali e il secondo formato alla diagnosi e cura
di tutta la gamma psicopatologica, dai disturbi d’ansia alle psicosi. Questa distinzione
ha di fatto determinato una separazione clinicamente imperfetta, perché anche
in psichiatria è richiesta una competenza specialistica per sintomi
neuropsicologici (cognitivi) che, quando presenti, hanno certamente un’origine
diversa da quelli neurologici, storicamente accertati con metodo anatomo-clinico,
ma devono ugualmente essere riconosciuti e trattati.
La consapevolezza dell’importanza delle alterazioni
della cognizione nella clinica psichiatrica della schizofrenia è riflessa nella
tradizionale ripartizione delle manifestazioni cliniche in tre blocchi: sintomi
positivi, sintomi negativi e alterazioni cognitive; tuttavia,
per oltre mezzo secolo dopo l’introduzione dei neurolettici antipsicotici, gli
psichiatri si sono generalmente accontentati degli effetti della farmacoterapia,
efficace prevalentemente sui sintomi positivi.
L’intervento cognitivo (cognitive remediation, CR)
è ora riconosciuto dalla comunità internazionale degli psichiatri come un mezzo
efficace per il trattamento dei deficit cognitivi della schizofrenia. Gli
effetti sono significativi, durevoli e associati a miglioramento nelle funzioni
della vita quotidiana. Come è accaduto per molti altri tipi di terapie, l’evoluzione
della CR ha generato numerosi programmi di trattamento, che impiegano una gamma
di tecniche specifiche, che fanno riferimento a un nucleo di principi comuni.
Bowie e colleghi hanno costituito un gruppo di lavoro di esperti (expert
working group consensus meeting) per identificare gli aspetti fondamentali
del trattamento e produrre raccomandazioni circa la configurazione, la
condotta, il report e la realizzazione.
(Bowie C.R., et
al. Cognitive remediation for schizophrenia: An expert working group white
paper on core techniques. Schizophrenia Research –
Epub ahead of print doi: 10.1016/j.schres.2019.10.047. Nov 4, 2019).
La provenienza degli autori è la
seguente: Department of Psychiatry, Yale School of Medicine (USA); Queen’s
University, Kingston, ON (Canada); Nathan Kline Institute for Psychiatric
Research (USA); New York University School of Medicine (USA); Boston University
(USA); Columbia University Medical Center (USA); Hospital Clinic Barcelona,
University of Barcelona, IDIBAPS-CIBERSAM (Spagna); Department of Psychiatry,
University of California, San Diego (USA); NORMENT, KG Jebsen Centre for
Psychosis Research, Institute of Clinical Medicine, University of Oslo (Norvegia);
Department od Psychology, University of Oslo (Norvegia); Institute of
Psychiatry, Psychology and Neuroscience, King’s College London, London (Regno
Unito); South London and Maudsley NHS Foundation Trust (Regno Unito).
La schizofrenia, che interessa l’1% della popolazione mondiale, costituendo
una delle maggiori cause di disabilità mentale, è la più grave delle
alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita di un paziente psichiatrico,
dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età adulta fino alla morte, di
dieci anni più precoce della media nella popolazione generale. La
concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente si deve al
grande nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal caso di
uno studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più semplici
dopo la comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti con un
simile decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per questo
elemento che gli parve caratterizzante, propose la definizione diagnostica di demenza
praecox.
Era dunque ben presente l’aspetto relativo al limite cognitivo, poi per
decenni trascurato, soprattutto per l’influenza delle teorie psicodinamiche
sulla genesi del disturbo, che attribuivano a conflitti inconsci lo sviluppo di
un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione del fondamento neurobiologico
cerebrale, necessario anche per i più elementari processi di estrazione di
significato dai messaggi verbali, oltre che per induzione, deduzione,
riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.
Lo stesso Eugen Bleuler[1], che introdusse il termine “schizofrenia”
per indicare la frequente scissione (schizo-) nello psichismo e, in
particolare, la separazione del tono affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa
nella comunicazione, aveva ben presente il difetto intellettivo che peggiorava
col progredire della malattia.
A quell’epoca, l’opinione degli psichiatri era concorde nel ritenere questo
quadro psicopatologico la conseguenza di una malattia del cervello con una forte
base genetica, e caratterizzata da un processo patologico che si supponeva
diffuso nel parenchima cerebrale, con particolare compromissione della
corteccia, ritenuta la base dei processi intellettivi. L’unica possibilità
esistente a quel tempo di studio del cervello consisteva nell’osservazione
necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni di tessuto cerebrale, per lo
studio istologico.
Gli stessi padri fondatori della neuropatologia, Nissl, Alzheimer e
Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem sul cervello di
pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che si rivelarono
incostanti e non caratterizzanti[2]. In particolare, nel 1897 Alzheimer
segnalò una scomparsa locale di cellule gangliari negli strati esterni della
corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte (1906) descrissero zone di
demielinizzazione focale, il cui reale valore di reperto istopatologico fu
contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da Wolf e Cowen. Anche
Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di neurologi illustri, compì
studi neuropatologici sulla struttura del cervello schizofrenico, descrivendo
formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti di preparazione del tessuto.
Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e una degenerazione grassa
degli strati corticali, che non trovarono riscontro in altri studi. Bruetsch,
nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai reumatici nell’encefalo
psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto, postulò un ruolo
eziologico per la febbre reumatica.
Nel 1952 Winkelman riscontrò nel cervello schizofrenico una perdita diffusa
di neuroni, ma furono sollevati dubbi circa la significatività del reperto che
si ritenne potesse essere stato generato dalle procedure istologiche impiegate.
Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[3], per superare questo problema, allestirono
uno studio che prevedeva un’accurata indagine seriale degli emisferi cerebrali
mediante sezioni sottili dello spessore di 8 μ in uno studio controllato,
in cui i reperti istologici dei cervelli dei pazienti erano comparati con
identiche sezioni del cervello di persone non affette da psicopatologia e
decedute per cause non cerebrali alla stessa età. I Vogt trovarono in tutti i
cervelli schizofrenici alterazioni assenti nei cervelli sani, anche se la
localizzazione, l’aspetto istologico e la densità variavano da un caso all’altro.
I tre reperti principali dei Vogt furono cellule colliquanti (Schwundzellen),
degenerazione vacuolare e liposclerosi.
Negli ultimi decenni, dopo oltre cinquanta anni durante i quali la
concezione neuropatologica della schizofrenia è stata abbandonata in luogo di
teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali e comportamentali, si è tornati
su più solide basi, fornite dalle metodiche di neuroimmagine, dalla nuova
genetica e dalle scoperte di neurobiologia molecolare e neurochimica, a
concepire le psicosi schizofreniche come conseguenza di alterazioni del
cervello[4]. Dalle differenze nel metabolismo
cerebrale, nell’espressione dei recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli
equilibri fra sistemi neuronici, nelle funzioni degli astrociti, fino a quelle
emerse dallo studio delle connessioni secondo i metodi del campo specializzato
della connettomica, si dispone di un’imponente raccolta di dati che individua
le basi cerebrali di una fisiopatologia, che non potrebbe essere spiegata nei
termini obsoleti della “reazione maggiore”, contrapposta alla “reazione minore”
costituita dai disturbi d’ansia.
Probabilmente, anche questa ritrovata consapevolezza delle basi
neurobiologiche delle psicosi ha accresciuto l’attenzione dei clinici per il versante
cognitivo delle manifestazioni sintomatologiche e per il loro trattamento.
Il gruppo di esperti, costituito da Bowie e undici colleghi, ha identificato
quattro elementi essenziali e irrinunciabili per un intervento cognitivo
efficace:
1) Facilitazione mediante un terapeuta
(professionista specializzato);
2) Esercizio cognitivo graduale;
3) Procedure per sviluppare strategie
di problem-solving;
4) Procedure per facilitare il
trasferimento nella vita pratica di quanto appreso.
Gli autori presentano in dettaglio tecniche di trattamento fondate su
questi quattro elementi, che secondo loro sono essenziali indirizzare la
sperimentazione clinica e la realizzazione nelle specifiche circostanze o setting
di trattamento.
L’autrice
della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la
correzione della bozza e invita alla
lettura delle recensioni di studi di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna Rezzoni
BM&L-16 novembre 2019
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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Sulla storia delle origini della
diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono
numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella
sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella
storia” si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali,
elenca l’evoluzione che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime
tracce scritte, risalenti al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.
[2] Le nozioni storiche riportate di
seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni
bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.
[3] Ai coniugi Vogt è intitolato un
istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli.
Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale
rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente
superiori alla media.
[4] Sicuramente una parte non
trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca
che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici
dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno
consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei
punti di vista che resistevano da decenni.